C’era una volta il quinto posto in Champions e l’exploit del calcio italiano: c’è un dato che certifica quanto sia grossa la figuraccia fatta quest’anno
C’era una volta il calcio italiano che dominava l’Europa. O almeno, c’era l’illusione che potesse tornare a farlo dopo la scorsa stagione, quando tre squadre tricolori arrivarono in finale nelle tre competizioni UEFA, regalando persino un posto extra in Champions per il 2024/25.
Oggi, invece, l’illusione si è sciolta come neve al sole e il calcio italiano si ritrova a fare i conti con un’umiliazione storica.
Il dato che fotografa meglio questo disastro è il payroll complessivo delle squadre eliminate rispetto a quello degli avversari. Juventus, Milan e Atalanta, infatti, vantavano un monte stipendi superiore del 194% rispetto ai club che le hanno fatte fuori. Sul mercato, poi, hanno speso addirittura il 359% in più. Eppure, sul campo, la superiorità economica non si è tradotta in risultati. Anzi.
La Juventus aveva un payroll di 112,9 milioni di euro, contro i 32,2 milioni del PSV Eindhoven. Parliamo di un divario di 250%. Sul mercato, poi, i bianconeri hanno investito 193,3 milioni di euro in nuovi acquisti, mentre il PSV si è fermato a 34,5 milioni, una differenza addirittura del 460%. Eppure, la squadra olandese ha avuto la meglio, mandando Allegri e i suoi fuori dalla Champions League.
E qui sorge spontanea la domanda: come è possibile che un club con una disponibilità economica tanto inferiore riesca ad avere la meglio? La risposta è semplice quanto impietosa: la Juventus ha speso, ma ha speso male. Non è una questione solo di budget, ma di programmazione, identità di gioco e gestione tecnica. Il PSV, pur con meno mezzi, ha dimostrato di essere più squadra.
Passiamo al Milan, un altro esempio perfetto di fallimento gestionale. I rossoneri vantavano un payroll di 103,6 milioni di euro, mentre il Feyenoord si fermava a 31,7 milioni. Anche qui, parliamo di un divario abissale, 227% in più per il Milan. Con l’aggravante che una parte di quei 103,6 derivano da Santiago Gimenez, acquistato proprio dalle mani del Feyenoord, che poi è riuscito a passare il turno anche senza di lui. Male, anzi malissimo.
Ma la vera differenza sta nel mercato: il club di Rotterdam ha speso solo 25,9 milioni per i nuovi acquisti, incassandone 90,4. Il Milan, invece, ha speso 121,7 milioni, incassandone solo 50,8. Tradotto: il Feyenoord ha costruito una squadra sostenibile, il Milan ha fatto un mercato discutibile e lo ha pagato.
Il risultato? L’ennesima eliminazione amara. I rossoneri non hanno saputo sfruttare la loro superiorità economica, finendo vittime di un avversario molto più compatto e organizzato.
Se per Juventus e Milan si poteva parlare di una batosta, il discorso per l’Atalanta è leggermente diverso. Il club bergamasco aveva comunque un vantaggio economico importante: 55,4 milioni di payroll contro i 28,4 milioni del Brugge (+95%). Anche sul mercato, la Dea ha speso 104,3 milioni, mentre i belgi si sono fermati a 31 milioni.
Ma almeno la squadra di Gasperini ha lottato. E, soprattutto, il Brugge non è stato un avversario morbido: si tratta di un club che da anni investe bene, valorizza i giovani e ha un progetto tecnico chiaro. La differenza con PSV e Feyenoord sta tutta qui: il Brugge è cresciuto nel tempo, mentre gli olandesi hanno battuto squadre italiane più forti solo sulla carta, ma debolissime nella gestione tecnica e tattica.
Il dato più allarmante? Il totale dei payroll delle squadre italiane eliminate è stato di 272 milioni di euro, contro i 92,4 milioni delle avversarie. Quasi il triplo. Eppure, Juventus, Milan e Atalanta hanno salutato la Champions prima del previsto.
Questo dato certifica un problema enorme: il calcio italiano investe tanto, ma non bene. I club di Serie A spendono più di quanto incassano, si ritrovano con bilanci in rosso e senza una strategia chiara. Dall’altra parte, il modello olandese e belga dimostra che si può competere anche con meno risorse, se si lavora con competenza.
L’eliminazione di Juventus, Milan e Atalanta non è solo una figuraccia. È la dimostrazione di quanto il calcio italiano sia indietro rispetto a un modello più sostenibile e vincente. E se non si cambia rotta, il rischio è che questa debacle diventi la norma, piuttosto che un’eccezione.
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