I numeri lo sconsigliavano, ma lui ha detto sì. E da allora, una maschera ha riscritto la storia. C’è una rivoluzione silenziosa che avanza nel calcio, ma finché esisterà l’intuizione nessun dato potrà fermarla
A volte basta una maschera. Un’esultanza. Un sorriso a metà tra il cartone animato e la guerra tribale. Per capire che no, non tutto può essere previsto da un algoritmo. Il calcio è fatto di numeri, sì. Ma anche di scosse improvvise. E quando si parla di Victor Osimhen, le scosse arrivano ancora prima dei numeri.
Cenk Ergun lo sa bene. È stato direttore sportivo del Galatasaray e uno dei primi in Turchia ad aver creduto nella rivoluzione digitale: Gps, analisi video, tracciamenti, dati. Quando ancora in Europa si parlava di “fiuto”, lui già mappava il campo come se fosse Google Earth. Ma proprio lui, il più convinto fautore dell’innovazione, ha deciso di andare contro l’intelligenza artificiale. E ha avuto ragione.
Secondo i software, Osimhen era un investimento sbagliato. Troppo costoso, troppe incognite, poca resa attesa. Ma l’intuito, quello umano, ha detto il contrario. “I numeri erano contro di lui”, racconta Ergun a Sportweek. “E invece ha vinto lui. Ha battuto anche l’AI”. E non solo in campo.
Perché Osimhen ha portato in dote qualcosa che nessun dato poteva calcolare: l’impatto culturale. In Turchia oggi i bambini cantano i suoi cori. Si travestono da lui. È diventato un’icona, un simbolo, sperando che poi non chiuda male come ha chiuso a Napoli. Il ritorno economico? Arriverà. Ma intanto, ha cambiato il modo in cui un’intera generazione guarda al calcio. Altro che grafici.
L’intelligenza artificiale entra nel calcio: il pallone sta cambiando
Il racconto di Ergun, però, non è una nostalgia per il passato. Anzi. È un diario di bordo di un cambiamento già in atto. “Quando ho cominciato, i calciatori non volevano nemmeno indossare il GPS. Adesso sono loro a chiederlo. Vogliono sapere tutto: chilometri, contrasti, tiri. Si vendono attraverso i dati. È come aggiornare il curriculum su LinkedIn”.
E non si tratta solo di performance. L’AI oggi è in grado di suggerire quale calciatore si adatta meglio a un modulo, chi ha difficoltà a integrarsi, chi è troppo affezionato alla vita notturna. E presto potrà anche suggerire dove mandare un giocatore in prestito per crescere meglio. “Tra dieci anni tutto sarà automatizzato”, dice. “Come Amazon: una volta si comprava in negozio, ora si fa tutto online. Lo sport non sarà diverso”.
E qui torna il punto di partenza. Il dato è potente, ma non è infallibile. “Ci sono cose che sfuggono al controllo. Il palo-gol, il rimpallo fortunato, l’urlo di un tifoso. Nessun algoritmo può prevederli. Eppure sono proprio quelli a decidere una stagione”. Lo stesso vale per il mercato. Osimhen è stato scelto con il cuore, Morata invece con la logica dei numeri: secondo l’AI, era il partner perfetto. Due modi opposti per arrivare allo stesso risultato. Ma solo uno ha cambiato la cultura di un club.
Nel frattempo, mentre in Europa si sperimenta, negli Stati Uniti l’AI ha già rivoluzionato anche l’esperienza dei tifosi: prezzi dinamici, biglietti personalizzati, offerte su misura. Il tifoso diventa cliente, profilato e coccolato. E il calcio europeo comincia a guardare in quella direzione. Ma per fortuna c’è ancora spazio per un colpo d’occhio. Un’idea. Un’intuizione. Un calciatore che tutti davano per “non sostenibile”. E che invece, a modo suo, ha battuto pure l’AI.