Un inizio in salita, poi l’idea che si fa strada: la Lazio di Sarri attraversa il dubbio, lima i dettagli, cambia passo. È il racconto di una squadra che sceglie la complessità e ne raccoglie i frutti quando il calendario smette di dettare paura e il lavoro comincia a pesare più degli alibi.
Errori banali, tempi sballati, spazi larghi. La sensazione di una squadra sospesa tra ciò che era e ciò che avrebbe voluto essere. Con Maurizio Sarri non esistono scorciatoie. La transizione è un’arte lenta. Si vede sul campo: uscite palla dal basso più coraggiose, linee vicine, terzini dentro al campo. È un linguaggio nuovo, fatto di ripetizioni e geometrie. Sembra semplice, non lo è.
Sull’orientamento del corpo. Sulle distanze tra regista e mezzali. Dettagli che diventano abitudini. E quando le abitudini si consolidano, i duelli li vinci prima con la testa. Da fuori, il cambio si avverte in una sfumatura precisa: il pallone viaggia più veloce. La costruzione dal basso non è più un rischio, è un’uscita pensata. La prima pressione funziona. La squadra sale compatta.
Non un lampo, ma una curva che si raddrizza. La Lazio perde la timidezza. Il baricentro si stabilizza, la squadra respira in avanti. Il pressing organizzato costringe gli avversari all’errore. La palla rubata diventa attacco, non affanno. Qui si vede il “lavoro profondo”: sincronismi tra esterni e mezzali, difesa che accorcia, attacco che vede la porta due passaggi prima.
Nella stagione 2022-23, la Lazio di Sarri ha chiuso al secondo posto in Serie A (fonte: Lega Serie A), miglior piazzamento dal 2000. La fase difensiva è stata tra le più solide del torneo: 30 gol subiti, seconda migliore del campionato (fonte: Lega Serie A). Non è un caso: quando la squadra accorcia bene, il portiere diventa il custode, non l’eroe. Ivan Provedel ha firmato una stagione da primato personale, con un numero di clean sheet tra i più alti d’Europa nel ruolo (fonte: Opta; il dato esatto varia per competizione e finestra temporale). Anche qui, niente magie: solo linee corte e coperture pulite.
Danilo Cataldi come perno che accende il primo passaggio verticale. Felipe Anderson e Zaccagni che legano fascia e mezzospazio, cucendo la manovra senza appesantirla. Ciro Immobile a catalizzare i movimenti in profondità, anche quando il gol tarda. E dietro, Romagnoli come bussola della linea. È la struttura a tenere, prima dei singoli.
Terzino dentro al campo, esterno alto stretto tra le linee, mezzala che occupa la zona luce. Con questa disposizione la Lazio ha guadagnato secondi preziosi tra recupero palla e rifinitura. Il risultato è un attacco meno verticale per disperazione e più verticale per scelta.
dove mancano serie ufficiali, lo segnalo. Ma l’evidenza qualitativa coincide con le metriche aggregate: meno tiri concessi da dentro l’area, più recuperi nella metà campo avversaria, più passaggi progressivi completati (fonti: Lega Serie A, Opta Analyst).
La domanda resta aperta, e fa bene al calcio: preferiamo il lampo o la linea? Perché certe rinascite, come questa, non esplodono. Crescono a vista lenta, finché un giorno ti accorgi che la palla scorre e il resto tace.
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