C’è chi parte e vince tutto, e chi resta a contare le macerie. Luis Enrique aveva capito prima di tutti dove stava il problema. Quelle frasi dimenticate raccontano una verità scomoda per la Roma. Perché certi fantasmi, a Trigoria, non se ne sono mai andati
Si parla sempre di colpe, di moduli, di allenatori, di presidenti. Ma alla fine, quando si guarda la Roma, si ha la sensazione che il problema sia sempre lo stesso, da decenni: una macchina che si inceppa, un ambiente che divora tutto. Tecnici esperti, giovani rampanti, profili internazionali, ex bandiere: chiunque ci passi finisce per uscirne logorato, prosciugato, sconfitto più dalle dinamiche interne che dagli avversari. Con la speranza che ora Gasperini possa invertire la tendenza.
Basta guardare l’ultimo decennio per accorgersene: Luciano Spalletti, risucchiato nel vortice delle pressioni; Paulo Fonseca, lasciato solo tra infortuni e critiche; José Mourinho, celebrato al grido di “Special One” e poi scaricato tra spaccature e accuse incrociate; Daniele De Rossi e Ivan Juric, ultimi a tentare di rimettere ordine in un caos che sembra sistemico. A Roma non si salva nessuno.
E allora viene da chiedersi: dov’è il cuore del problema? Forse è più profondo di un cambio in panchina o di un colpo di mercato mancato. Forse il nodo è culturale, ambientale, strutturale. Un club che non riesce a proteggere chi lavora, che non sa fare squadra fuori dal campo, che non regge all’onda emotiva di una piazza straordinaria ma esigente e spesso impaziente.
Ed è proprio qui che tornano a galla, come un colpo allo stomaco, quelle parole pronunciate da Luis Enrique. Era il maggio 2012, la Roma chiudeva una stagione grigia, e lui annunciava l’addio alla squadra.
Il tecnico spagnolo disse: “Me ne vado perché sono stanco. Questo è un bel posto, ma c’è bisogno di un po’ più di aiuto. E lo dico per chi verrà dopo di me. Per me è stato un grandissimo piacere allenare la Roma, ma mi sono pentito di venire qui. Dei tifosi non hanno capito quel che faccio”.
Parole pesanti, che all’epoca vennero archiviate come l’amarezza di un allenatore che non aveva sfondato. Ma oggi suonano quasi profetiche. Perché Luis Enrique, dopo aver lasciato Roma, ha vinto tutto: il Triplete col Barcellona, i trofei col Paris Saint-Germain, il rispetto internazionale con la fama del “vinci-finali”. Eppure, a Trigoria, quell’avvertimento sembra essere rimasto lettera morta.
Quel famoso striscione in Curva Sud, “Luis vattene da Roma, s’è liberato er posto al Barcellona”, oggi fa riflettere: si esulta quando qualcuno parte, ma poi ci si accorge di ciò che si è perso. E si resta sempre lì, a ricominciare da capo, senza mai capire davvero cosa non funziona.
Forse è arrivato il momento di rileggere quelle parole non come uno sfogo, ma come una diagnosi. Senza una struttura forte, senza un ambiente che protegga, senza pazienza, nessun allenatore potrà mai vincere davvero a Roma. Non basta cambiare la guida tecnica. Serve cambiare pelle. O, forse, come direbbe qualcuno, serve un esorcista. Chissà se Gian Piero Gasperini sarà in grado di scardinare queste dinamiche e riportare la Roma in alto.
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