Sembrava la solita cerimonia di premiazione, invece è diventata una scena da sit-com. Colpa di un equivoco e di un presidente che pensa sia tutto suo. Il calcio mondiale chiude in perfetto stile americano
Si fa presto a dire “grande successo”. Basta un microfono acceso, due sorrisi tirati e il solito Infantino che annuncia, compiaciuto, la nascita di un nuovo miracolo globale. Peccato che gli unici a crederci fossero rimasti lui, qualche sponsor e forse nemmeno tutti gli organizzatori.
Il Mondiale per Club che doveva rivoluzionare il calcio si è chiuso nel più prevedibile dei modi: stadi semivuoti, entusiasmo ai minimi storici e quel leggero retrogusto da evento forzato che nemmeno la miglior regia americana è riuscita a mascherare. C’erano i migliori giocatori del mondo, va bene. Ma anche un torneo amatoriale del giovedì sera, se ci metti Mbappé, diventa interessante. Il problema è tutto il contorno.
Che poi, a dire il vero, qualcosa di memorabile è successo. Solo che non c’entra molto col calcio giocato. O forse sì, ma solo se si accetta l’idea che la finale l’abbia vinta il personaggio più pittoresco del torneo. No, non Messi. Non Cole Palmer e neppure Fabian Ruiz. Parliamo di lui. Dell’unico, inimitabile, ingovernabile Donald Trump.
Era già riuscito a far parlare di sé qualche giorno prima, trasformando la visita della Juventus alla Casa Bianca in un bizzarro spot bellico. Con Chiesa e compagni lì fermi, composti, mentre il presidente snocciolava aggiornamenti sulla situazione in Medio Oriente come se avesse davanti i generali, non Tudor. Una roba da meme istantaneo. Ma il meglio doveva ancora arrivare.
Lo strano caso del trofeo del Mondiale: il Chelsea ha una replica?
Alla fine, il Chelsea ha vinto il torneo. Lo ha fatto battendo il PSG, mettendosi in bacheca una bella coppa. Anzi no. Perché – e qui viene il bello – la coppa vera non è mai arrivata a Londra. È rimasta, incredibilmente, alla Casa Bianca. O almeno così sostiene il presidente degli Stati Uniti.
Secondo il racconto di Trump, confermato con la solita flemma alla “tanto a me chi mi dice niente”, la FIFA gli avrebbe consegnato il trofeo originale prima del torneo. Così, da custodire nello Studio Ovale. Una specie di prestito d’onore, insomma. Finito il torneo, Donald avrebbe chiesto a Infantino: “Quando venite a riprenderlo?”. E la risposta, stando sempre a lui, sarebbe stata: “Non lo ritireremo mai, puoi tenerlo per sempre”.
Ora, qualcuno dovrebbe spiegargli che forse era una battuta. Oppure no. Il dubbio resta. Fatto sta che a questo punto il Chelsea avrebbe ricevuto una copia, mentre Trump si tiene stretto l’originale, come fosse il trofeo del torneo di golf del weekend. Roba che in un Paese normale porterebbe a una mezza crisi diplomatica, ma qui fa semplicemente ridere. O piangere, a seconda dell’umore.
La FIFA per ora tace. Nessuna conferma, nessuna smentita. E il Chelsea? Pure. Forse perché, in fondo, una coppa vale l’altra. Ma resta quella sensazione di presa in giro che accompagna tutta questa storia: un torneo pensato per diventare il nuovo centro del mondo calcistico si chiude con un trofeo in ostaggio e una scenetta da varietà televisivo.
Il problema non è nemmeno il gesto in sé, quanto la sua assoluta coerenza con l’atmosfera surreale che ha accompagnato questa edizione. Un torneo nato con pretese esagerate, gonfiato da parole altisonanti e sgonfiato in campo da un pubblico distratto e da una narrazione che non ha mai preso davvero quota.
La sensazione è che il Mondiale per Club sia ancora lontano anni luce dall’essere considerato una vera istituzione. E se il punto più alto dell’evento è stato Trump che si porta a casa la coppa, allora forse vale la pena ripensarlo da capo. O lasciarlo a lui, che in fondo un trofeo se lo merita: miglior attore non protagonista.