Cosa sta facendo il calcio italiano contro il razzismo?

Dopo il razzismo a Koulibaly durante il match Atalanta-Napoli il tema torna al centro del dibattito. Ma cosa stiamo facendo?

Ancora una volta, dopo gli insulti razzisti che piovono dagli spalti dei nostri stadi, vittima questa volta Koulibaly del Napoli a Bergamo, ci troviamo di fronte al verso di De Andrè in Don Raffaé “si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità.”

Slogan contro il razzismo in Serie A
Slogan contro il razzismo (LaPresse)

Perché, inutile cantarcela e suonarcela, è questo quello che succede. Qualche commentatore che condanna, qualche opinionista che dice la sua, qualche fenomeno del bastian contrario che, anche di fronte all’evidenza, vuole fare il bastian contrario. E, passati i tre giorni della sposa, tutto torna come prima.

Oggi Koulibaly, ieri Kean, dopodomani Kessie. Senza dimenticarci gli slavi e i napoletani. E perché no pure gli ebrei. Il pubblico a casa si costerna, i media si indignano, la Lega Serie A e la FIGC si impegnano, ma poi tutti, e proprio tutti, gettano la spugna con gran dignità.

Il problema però è che far finta di lavare i panni sporchi non è più una questione che si può risolvere solo in famiglia. Il mondo è piccolo e costantemente collegato. E un “neg*ro di mer*da” gridato a Bergamo sul bruciore della sconfitta scatena un uragano in Senegal. Giustamente!

Così, dopo le bacchettate arrivate dalla Spagna per i cori razzisti contro i napoletani, stavolta si smuove addirittura la federcalcio senegalese che, con un sacrosanto tweet al veleno, attacca il comportamento di quella parte del pubblico bergamasco che ha intonato cori razzisti nei confronti di Kalidou Koulibaly.

Chiariamolo, non stiamo parlando di qualche fischio che può essere interpretabile e può tranquillamente essere rivolto al calciatore in quanto avversario e non all’uomo in quanto avente la pelle nera. Stiamo parlando, basta una ricerca veloce su Google per trovare i video, di veri e propri insulti razzisti.

Naturalmente, dopo i 160 caratteri del tweet, la presa di posizione è più dura. Quindi ci si costerna, ci s’indigna, ci s’impegna ancora di più per poi gettare comunque la spugna, ma con ancora più gran dignità. Perché alla fine 160 caratteri di un tweet sono sempre 160 caratteri e il feed scende veloce. Ma il problema resta.

Kalidou Koulibaly, oggetto di insulti razzisti a Bergamo
Koulibaly (LaPresse)

La domanda è: il calcio italiano vuole davvero combattere il razzismo negli stadi?

Bisognerebbe a questo punto farsi un’altra domanda. Una domanda che dovrebbe precedere tutte le altre considerazioni: il calcio italiano sta davvero combattendo il razzismo negli stadi? O semplicemente sta facendo vedere che combatte il razzismo negli stadi?

Perché siamo su due piani completamente diversi. D’accordo che oggi, nelle nostre società occidentali in cui la formalità primeggia sulla sostanzialità in praticamente tutto, le due cose possono apparire uguali. Ma non lo sono!

Parliamoci chiaro: il calcio italiano sta facendo vedere che combatte il razzismo, ma non lo sta combattendo. Perché non ha davvero interesse a farlo. Non c’è un vero e proprio ritorno nel combatterlo, come invece c’è, ed anche tanto, nel far vedere che lo si sta combattendo.

Senza volerci dilungare nelle più disparate teorie della comunicazione, ogni messaggio presuppone un mittente, un messaggio (con un suo linguaggio), un mezzo attraverso il quale lo si comunica e un destinatario.

In questo caso chiediamoci: chi è il destinatario del messaggio antirazzista da parte del calcio italiano? Perché se è il tifoso medio che materialmente potrebbe fare i cori razzisti dagli spalti, il calcio italiano sta sbagliando linguaggio, mezzo e messaggio stesso.

L’esempio lampante è lo slogan “Keep racism out”. Bello, figo, inglese, hashtaggabile. Perfetto per finire in trending topic tu Twitter. Ma proprio per questo inutile. A meno che non si ammette che quel messaggio non è destinato ad un target da stadio, ma ad un altro tipo di target.

Lo spettatore alto-spendente, quello su cui sono state settate tutte le riforme del calcio mondiale negli ultimi 30 anni. Il consumatore acritico, lo stereotipo del fruitore “all’americana”. Lui è il target ideale di quel tipo di messaggio. Colui che vive tra un highlights da retwittare e un like da lasciare.

Per dirla in maniera cinica, il calcio italiano non sta combattendo il razzismo, ma sta vendendo, a questo target, l’idea che lo stia facendo. Gli anglosassoni, non a caso società che storicamente hanno fatto del puritanesimo di facciata la loro bussola morale (ieri come oggi), hanno un nome per questa cosa: woke capitalism. Vendere un prodotto attraverso il far credere che quel prodotto sposi determinati valori. Semplice. E magari quel prodotto è anche di qualità pessima e di costo alto.

C’è però un problema che spesso si tende a sottovalutare: declinando un messaggio in questo modo si alimenta, da parte degli altri, il gusto nel fare ciò che quel messaggio vorrebbe vietare. Un messaggio del genere, declinato in questo modo, è estremamente escludente. Perché le manifestazioni in campo a favore del Black Live Matters, che pure sulla carta è un movimento sacrosanto, sono state accolte da malumori e fischi negli stadi europei? Perché le livree nere delle Mercedes, fortemente volute da Hamilton e supportate dalle sue dichiarazioni, sono state tacciate di ipocrisia dalla quasi totalità degli appassionati di Formula 1?

Il messaggio in questo caso viene riconosciuto come escludente da quella parte di pubblico che non è nel target del messaggio. Parte di pubblico che poi, compattandosi come gruppo di “esclusi”, vede nella critica al messaggio un moto quasi di ribellione e di rivalsa. Soprattutto se è un gruppo che, a torto o ragione, si sente “escluso” anche in altri ambiti sociali (e lo stadio, specialmente alcuni settori ‘popolari’, è il regno delle persone che, negli ultimi anni, si sono sentite escluse dai più disparati ambiti sociali).

Una sorta di: voi volete mostrarvi tanto bravi, ma noi sappiamo che siete degli ipocriti che lo fate solo per apparire bravi nei confronti di quelli come voi. E se utilizzate questo vostro essere bravi per escluderci ancora di più, in quanto noi non rispettiamo le vostre regole, allora noi ci comporteremo maggiormente contro le vostre regole.

Giocatori inginocchiati per il Black Live Matters
Giocatori inginocchiati per il Black Live Matters (LaPresse)

C’è una soluzione al problema?

Pretendere di combattere il problema del razzismo senza intervenire, anche in maniera dura e concreta, sulle cause sostanziali del problema razzismo è come svuotare l’oceano con un cucchiaino. E naturalmente questo non è un compito che può svolgere solo il calcio.

Il Daspo dato al tifoso colto in flagrante è il cucchiaino che prende l’acqua dall’oceano. Ma l’oceano resta. Soprattutto se a te fa comodo far vedere che stai svuotando l’oceano con il cucchiaino.

Una seria lotta al razzismo la si può fare attraverso una sinergia che vede nella punizione solo la conseguenza finale. Ma che è conscia che il lavoro da fare è culturale e sociale. E soprattutto è sostanziale. Non una manichea divisione tra cattivi dietro la lavagna e buoni ad applaudire le decisioni del maestro quando ogni tanto viene beccato il cattivo.

Pugno duro, coinvolgimento attivo delle società e ‘della società’, educazione fin dai settori giovanili, punizioni costruttive e rieducative. Che devono però essere complementari a movimenti sociali che non si limitano ai 90’ e al terreno di gioco, ma che soprattutto non abbiano come fine la mera pubblicità. Fatta spesso, come detto, nemmeno per quelli che dovrebbero essere destinatari del messaggio finale.