Roma, la scommessa vincente dei Friedkin: al centro c’è di nuovo il tifoso

La nuova proprietà della Roma ha rimesso al centro il tifoso. Una strada già intrapresa in Europa, un esempio per il resto d’Italia.

Quando Dan Friedkin, l’Amministratore Delegato e Presidente di The Friedkin Group, acquistò nell’estate del 2020 la Roma da James Pallotta, oltre ai ringraziamenti e alle frasi di rito, pronunciò alcune parole che, col senno di poi, fanno riflettere. “Non posso infine non riconoscere l’incredibile forza, la passione e la lealtà dei tifosi e della Curva Sud”.

Tifosi della Roma
Curva Sud dell’Olimpico (LaPresse)

La Roma giallorossa viveva in quel momento un periodo di palese depressione calcistica. Il rapporto tra il tifo e la vecchia proprietà era ai minimi storici. Senza dimenticare che in campo, a parte qualche exploit, come la semifinale di Champions League, non è che fossero arrivate tante gioie.

In più, e nella Roma giallorossa siamo ai livelli di lesa maestà o affronto agli dei, anche il rapporto tra la vecchia proprietà e le bandiere come Francesco Totti e Daniele De Rossi non era mai stato particolarmente solido.

Insomma, agli occhi dei tifosi romanisti, esponenti di una piazza molto legata alla storia e all’identità, l’era Pallotta rispecchiava in toto il concetto di proprietà statunitense. Quella più attenta al cliente-spettatore, ossessionata dal brand, dall’immagine, che preferisce dieci piazzamenti ad un trofeo. Che nulla fa per coltivare l’identità e il senso di appartenenza in dei tifosi in loco. Quelli che, con la pioggia o con il sole, sono a pagare biglietti e abbonamenti.

Ryan Friedkin, vicepresidente della Roma
Ryan Friedkin (LaPresse)

E se la strada da seguire anche in Italia fosse quella della Roma?

In molti, a dire il vero, pensavano che anche la nuova gestione dei Friedkin sarebbe stata all’insegna di quella tendenza, ormai pervasiva nel nostro calcio, di “americanizzare” il pallone. In fondo anche i Friedkin sono made in USA. Ed era naturale aspettarsi che, come lo stesso Pallotta, o anche come diversi presidenti italianissimi ma col “sogno americano” nel cuore, continuasse ad avere come bussola il modello soccer.

Certe volte però la storia prende pieghe quasi divertenti. Perché il modo di pensare del mondo va avanti. E solo i ‘provinciali’ perseverano in idee e mode che ormai, nei posti stessi in cui sono state partorite, sono già fuori tempo massimo. Ma il nostro calcio è il regno del provinciale. Così, mentre da noi si continua a credere che lo spezzatino orario, le quattordici maglie a stagione, l’elemosinare il tempo-attenzione dei ragazzini che giocano al FUT di FIFA e gli hashtag in inglese siano la strada del futuro, in altre parti d’Europa hanno invece superato questa fase di acritica ricerca della spettacolarizzazione e hanno capito che l’unico vero asset che non perde valore in un club calcistico è il tifoso.

Josè Mourinho, allenatore della Roma
Josè Mourinho (LaPresse)

Il tifoso è cosa diversa dallo spettatore

I Friedkin, che sono statunitensi fino al midollo, quindi di modello ‘alla NBA’ ne sanno certamente qualcosa in più dei vari Lotito o De Laurentiis, giusto per fare paragoni con squadre comparabili alla Roma, l’hanno capito. E si sono comportati di conseguenza.

Il regalare i biglietti per la finale di Conference League ai tifosi presenti nella ‘tragica’ trasferta di Bodo è qualcosa che al momento ti fa un danno economico. Perché non vendi biglietti e non li vendi ad un target-tifoso che avrebbe anche possibilità di spesa (una trasferta a Tirana non è per tutti). Ma instilli un’idea: che la fede ripaga. Che la società è attenta, sa che tu stai sostenendo ciò che rappresenta la squadra anche fuori dal campo e non stai semplicemente facendo lo spettatore per ciò che la squadra è in campo.

Anche il gesto di far firmare il ‘contratto da tifoso a tempo indeterminato’ al giovane supporters deluso è sintomo di attenzione alle piccole cose. Un gesto, a costo zero, che da un lato coccola un ragazzo che in quel momento rappresenta tutti i giovani tifosi, dall’altro aiuta a ribadire il concetto: il tifo è a tempo indeterminato. E’ nella buona e cattiva sorte, altro che matrimonio.

Avere in panchina una ‘macchina da consenso’ come Mourinho poi fa tutta la differenza del mondo. Ma chi lo ha ingaggiato Mourinho? Chi ha scommesso su Mourinho, allenatore dalla personalità ingombrante, per rilanciare un ambiente che era, ribadiamolo, in depressione calcistica?

Il punto non è che i Friedkin sono mosche bianche. Il punto è che il nostro calcio, imbottigliato nella sua ossessione provinciale, continua a percorrere una vicolo cieco. Una strada senza sbocco che in tutta Europa hanno da tempo capito, con modi e tempi diversi, non porta a nulla sul lungo termine.

Se in Premier si parla di standing-zone, se in Germania non si è mai abbandonato, nemmeno nei tempi in cui l’abbaglio del calcio virtuale sembrava la nuova panacea per i bilanci, la centralità dello stadio e del tifoso da stadio. E se anche in Italia presidenti stranieri stanno ridando, con tutte le differenze tra i vari casi, centralità al tifoso, un motivo ci sarà, no?