“Avevo la scorta, potevo morire”: Milan, il grande ex gela tutti

Un grande ex del Milan si è confessato con una lunga lettera aperta in cui ha raccontato la sua carriera, compresi episodi da dimenticare.

Il calcio, da sempre, vive soprattutto di eccessi. Di giudizi trancianti, di definizioni nette come “campione” o “bidone”, di esaltazione per le vittorie e disperazione per le sconfitte. Di aspettative enormi, spesso eccessive, che se non soddisfatte portano ad attacchi personali a volte persino feroci.

Pato Pirlo Seedorf Milan
Alexandre Pato, Andrea Pirlo e Clarence Seedorf ai tempi del Milan (ANSA Foto)

Questi alti e bassi, nel corso dei suoi 32 anni di vita, Alexandre Pato li ha vissuti tutti in prima persona. Esploso giovanissimo nel Milan, che lo aveva prelevato dall’Internacional di Porto Alegre e già sentiva di avere in casa il centravanti per un decennio, per tifosi e addetti ai lavori era evidentemente un predestinato. Un futuro Pallone d’Oro, un campione destinato a lasciare il segno come pochissimi.

Poi sappiamo come è andata la storia. Pato si è preso il Milan e poi lo ha perso, ha provato a rilanciarsi un po’ ovunque senza mai riuscirci, tradito dai troppi infortuni. Il Pallone d’Oro non lo ha mai neanche sfiorato. E oggi gioca in America, nell’Orlando City, malinconico tramonto di una carriera che certamente non è andata secondo le aspettative.

Cos’è successo prova a raccontarlo lui stesso in una lunga lettera scritta per “The Player’s Tribune”. Andando a ricordare numerosi episodi che hanno contrassegnato la sua carriera, alcuni davvero deprecabili e che hanno addirittura messo in pericolo la sua vita.

Alexandre Pato
Alexandre Pato (LaPresse)

L’ex Milan Pato si racconta: “In Brasile rischiai la vita”

È successo nel 2013, nel momento in cui il sogno del Milan e del calcio europeo svaniva e arrivava il mesto ritorno in Brasile a soli 24 anni. “Laggiù c’è tanta disuguaglianza, e io arrivai come una star, guadagnavo tanto e si aspettavano tanto da me nel Corinthians. Sbagliai un rigore contro il Gremio, lo calciai male, con un cucchiaio, ma non è vero che i miei compagni mi presero a botte come è stato detto”.

“I tifosi invece volevano uccidermi. Giravo per strada con i vetri antiproiettile e le guardie del corpo. Una volta fecero irruzione nel nostro centro allenamento, avevano mazze e coltelli. Sono cose che non dovrebbero avere niente a che fare con il calcio.”

Un ricordo doloroso che arriva nel mezzo di un lunghissimo racconto, che parte dalla sua infanzia (“Mi avrebbero dovuto amputare un braccio per un tumore, i miei non potevano permettersi l’operazione e non scorderò mai il dottore che mi operò ugualmente”) e quindi passa inevitabilmente dal sogno Milan.

“Sembrava di essere in un videogioco. E dopo i primi gol arrivarono i titoli. Dicevano che ero il migliore del mondo, che avrei vinto il Pallone d’Oro. L’ho sognato anch’io. E quando le cose non sono andate bene dicevano che prendevo parte a troppe feste, che mi divertivo troppo, se rispondevo mi dicevano che dovevo pensare solo al calcio.”

“Non sono qui per fare cambiare idea a nessuno.” Apre così la lettera Pato. E la conclude, dopo aver raccontato tutta una carriera che ancora a suo dire è lontana dalla conclusione, affermando di ritenersi soddisfatto: “Ci è concessa solo una vita, perché dovrei essere insoddisfatto? Fisicamente e mentalmente sto bene, e anche se non sono diventato il miglior calciatore al mondo ho una moglie che amo, una splendida famiglia. Per come la vedo io ho vinto tanti Palloni d’Oro. E se la vita è un gioco, io ho vinto.”